Il giro del mondo in 80 libri: "Suite Francese" di Irène Némirovsky
- Mattia Lisa
- 20 nov 2022
- Tempo di lettura: 4 min
In questo nuovo articolo della nostra rubrica che vi porta in giro per il mondo con la mente, facciamo tappa in Francia, nel periodo dell’occupazione nazista.

Di: Ester Belladelli
C’è una frase ne “La verità sul caso Harry Quebert” di Joel Dicker che introduce l’ultimo capitolo e dice più o meno così:
“All’incirca mezzo secondo dopo aver finito il tuo libro, dopo averne letto l’ultima parola, il lettore deve sentirsi pervaso da un’emozione potente; per un istante, deve pensare soltanto a tutte le cose che ha appena letto, riguardare la copertina e sorridere con una punta di tristezza, perché sente che quei personaggi gli mancheranno. Un bel libro [...] è un libro che dispiace aver finito.”
Penso che in queste poche righe Dicker sia riuscito a catturare alla perfezione tutte le sensazioni che mi pervadono solitamente, quando chiudo un libro, dopo che leggo l’ultima parola. Ed ecco che invece arriva l’anomalia: “Suite Francese” di Irène Némirovsky. Questo romanzo, infatti, un’ultima parola non ce l’ha, o almeno non nel senso che siamo soliti dare.
“Suite Francese” è l’ultima opera, incompiuta, di una delle più prolifiche scrittrici del Novecento. Non avevo mai letto nulla di quest'autrice prima di questo romanzo. L’interesse per questo libro è scaturito infatti da una mia visione dell’omonimo film del 2014, opera di Saul Dibb. Irène Némirovsky aveva origini ucraine, ma visse gran parte della sua vita in Francia. Non ho studiato letteratura francese a scuola, ma ho il sospetto, complice la società in cui viviamo, che anche se lo avessi fatto non avrei sentito molto parlare di lei. Del resto, nemmeno in cinque anni di letteratura italiana ho studiato alcun nome femminile. E invece di Némirovsky bisognerebbe sentire parlare, del suo talento, della sua storia e della storia del suo ultimo libro, per non dimenticare.
“Suite Francese” doveva essere un’opera composta da un totale di cinque libri. In realtà ne possiamo leggere oggi solamente due. I restanti non sono altro che appunti e bozze dell’autrice. Sono numerose le vicende che si intrecciano, e che sarebbero state sviluppate ulteriormente, nel teatro dell’occupazione Nazista in Francia.
Famiglie costrette ad abbandonare le proprie case parigine per la salvezza. Sono infatti descritti i lunghi esodi della popolazione attraverso i panorami della Francia rurale, per giungere ai paesi di campagna dove rifugiarsi. Genitori alla disperata ricerca priva di certezze dei figli partiti militari. Giovani animati dagli ideali patriottici pronti a lasciare tutto ciò che è a loro noto per combattere.
Ma anche donne francesi, in un villaggio privato di uomini, costrette a fare i conti con l’invasore. Egli era infatti temuto e odiato per ciò che rappresentava, ma pur sempre umano, come sostiene la protagonista di "Dolce", secondo libro dell'opera, da cui è tratto il film sopra citato.
Le emozioni che questi racconti trasmettono sono trafiggenti. C’è un passo del primo libro, “Temporale di giugno” dove a dialogare sono un soldato ferito e due giovani contadine che lo stanno curando. Ad un certo punto l’attenzione è posta sull’età dei personaggi, poco più che ventenni, nel fiore della propria giovinezza. C’è la guerra e loro sono giovani. Senz’altro, questo passo porta a riflettere sulla fortuna che abbiamo se oggi viviamo in un paese in pace, senza dover trascorrere i nostri “migliori anni” in una circostanza devastante come la Seconda Guerra Mondiale.
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L’elemento chiave di quest’opera è forse l’umanità. L’uomo è in grado di scatenare disastri come quello narrato, ma sono le singole persone, con le loro paure, i loro desideri, le loro aspirazioni, speranze e dolori a vivere. La Germania era sì un avversario della Francia sul campo di battaglia, ma i soldati erano persone, sia su un fronte che sull’altro.
La parte conclusiva del libro è costituita dagli appunti dell’autrice. Non accade spesso di sentirsi così vicini a chi ha scritto l’opera che si sta leggendo. Tuttavia, quello che si legge in queste pagine è proprio il flusso di coscienza di Irène la scrittrice ed anche di Irène la donna. Esclamazioni, pensieri su carta si affiancano a dettagli più tecnici sulla struttura completa dell’opera.
Le ultimissime pagine sono invece dedicate allo scambio di lettere tra Irène, suo marito e il suo editore. Qui, in un crescendo, percepiamo fra le righe l’angoscia, la paura e l’assurdità dell’Olocausto. Irène Némirovsky venne deportata nel luglio del 1942 e morì un mese più tardi ad Auschwitz, a 39 anni. Nemmeno la sua fama e il suo talento furono in grado di salvarla da un regime così crudele. Un regime che poco dopo si portò via anche il marito e che per mesi continuò a rincorrere, fortunatamente senza riuscire a raggiungere, le figlie, allora solamente bambine.
Questo libro lascia tanto. E’ un romanzo descrittivo, capace di far vivere la tragedia della guerra attraverso decine di paia di occhi, con altrettante storie diverse. È anche un testamento alla vita di una donna che oggi è riconosciuta come una delle maggiori autrici della sua epoca. Infine, è un’ulteriore testimonianza della Shoah, di ciò che è stato e che non dovrà mai essere dimenticato.
Quel manoscritto, rimasto 60 anni in un armadio e pubblicato solamente nel 2004, è oggi a disposizione del pubblico, leggetelo.
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